La baracca con le lucine di Natale

Stamattina andavamo a Torino in auto, io e Dafne.

Lungo la tangenziale ci sono innumerevoli favelas, che sembrano crescere sempre più. Immense città dimenticate e nascoste, in luoghi non facilmente raggiungibili, ma visibili per brevi momenti mentre ci si passa davanti in auto.

In una di queste favelas, in mezzo ai rifiuti, sotto ai tetti tenuti fermi dagli pneumatici, tra lamiere arrugginite, fango, mucchi di spazzatura e teli di nylon, abbiamo visto la misera facciata di una baracca decorata con le lucine di Natale, accese, che lampeggiavano attraverso la nebbia del mattino torinese.
Non c’erano persone, soltanto nebbia, niente sole, freddo sottozero, una città in bianco e nero come un film di Bela Tarr, e questa baracca in mezzo alle altre, con le lucine multicolore che lampeggiavano.

Un pezzo di sterrato davanti alla porta, una versione embrionale di veranda o cortile.

Questo è quello che ho visto nella manciata di millisecondi mentre ci passavo davanti, mentre anche Dafne notava la grottesca stranezza di questa cosa.
Poi per tutto il giorno ha continuato a rivenirmi in mente.

Non ne ho parlato con nessuno.

Ho passato una bella giornata con i miei, di quelle giornate di festa che non vedi l’ora che arrivino. Dafne si è divertita con i nonni, io sono andato un po’ in giro con mio papà, abbiamo chiacchierato, riso, discusso, guardato l’acquario, mangiato e bevuto, parlato di tutto e di niente.
E quell’immagine mi tornava in mente, come quando ascolti un motivo alla radio, di qualche cantante che odi o non conosci neanche, e ti rimane appiccicato là per qualche giorno.

La baracca con le lucine di Natale.

Ci pensavo mentre parlavo con i miei, mentre facevo i discorsi con me stesso che forse tutti fanno da soli, mentre andavamo al negozio dei surgelati con mio papà, mentre messaggiavo con Barbara, mentre spiegavo a Dafne qualche cosa che mi chiedeva.

Continuavo a pensarci tutto il giorno.

La tranquillità familiare, gli affetti, le cose che vorremmo durassero per sempre, e quando ci accorgiamo che non saranno eterne apprezziamo sempre più.
E la baracca con le lucine di Natale che mi tornava sempre in testa.

Alla fine ho cercato di capire perché quell’immagine continuava a riproporsi come un motivetto orecchiabile che non riesci a dimenticare, perché non riuscivo a cancellarla e a liberarmene come gli altri diecimila fotogrammi di cose che vedo tutti i giorni.

Perché quella è una testimonianza di umanità.
Là ci abitano delle persone.
Degli esseri umani.

Non erano più gli esseri indefiniti, ma delle persone, degli umani, con sensazioni e voglia di fare festa.

Hanno messo le lucine di Natale: qualcuno se le è procurate, qualcuno le ha disposte per bene, qualcuno le ha collegate alla rete elettrica e le ha accese. Qualcuno di umano, semplicemente nato e vissuto dalla parte sbagliata del mondo, l’altra metà, “The Other Half”.

Qualcuno che con una voglia di colore luce e vita in mezzo alla peggiore merda che possiamo immaginare, è riuscito a stordirmi con un raggio laser di emozioni che non so se riuscirò a dimenticare.

 

(La foto in evidenza fa parte del primo servizio fotografico mai fatto per testimoniare le condizioni di vita della gente povera nella New York di fine ‘800: How the Other Half Lives: Photographs of NYC’s Underbelly in the 1890s )

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