Negli anni Ottanta era sempre inverno

Non ricordo che quando ero giovane si desse tutta questa importanza al tempo, alla pioggia, al freddo. Sarà che non c’era internet, e si usciva di più. Sarà che sono nato e cresciuto a Torino, la città dei “lampioni e portici”: in poche centinaia di metri arrivavo ai portici di Via Nizza, e da là potevo andare sino in via Roma, Piazza Castello, via Po, oppure via Cernaia e piazza Statuto e fare chilometri senza uscire dai portici se non per attraversare la strada.

Mi ricordo cappotti e impermeabili, maglioni super pesanti, i guanti di lana, temperature che di notte facevano ghiacciare l’acqua e scoppiare le bottiglie d’acqua minerale (che allora erano di vetro) sul balcone, non so se le scuole avessero il riscaldamento, perché ricordo la calzamaglia sotto i pantaloni, l’auto si usava meno e i mezzi pubblici avevano l’odore di pioggia, profumo pino silvestre e fumo di sigaretta.

Negli anni ’80 ci fu una specie di mini glaciazione. I Bluvertigo li ricordano con “la grande nevicata dell’85”, io ne ricordo una a ottobre dell’86, e noi incuranti si andava a baciarsi in piedi nel parco vicino alla scuola con la neve di trenta centimetri, e entravamo al liceo all’ultimo minuto coi pantaloni bagnati fino a sopra il ginocchio, i prof ci “sgamavano” e ci sgridavano ma ridendo sotto i baffi.

Tommaso Labranca ricorda un concerto estivo degli Spanda Ballet in cui Tony Hadley non si tolse l’impermeabile, tanto era forte l’immaginario del look invernale. Se ricordate i gruppi musicali e gli attori erano sempre vestitissimi, Aldo Nove disse che “negli anni ottanta era sempre inverno”, questa frase mi ha colpito e non posso che concordare. Forse per questo io che adoro la nebbia il freddo e l’autunno li ricordo sempre con nostalgia, o forse più semplicemente perché negli anni 80 ero giovane magro mi credevo bello e pensavo di poter fare tutto.

La pioggia battente e il freddo di stamattina erano un po’ noiosi, ma mi sono accorto che non si usa più l’impermeabile, neanche io ce l’ho più. Tutti reputano indispensabile l’auto neanche fosse pioggia radioattiva, e non apro neanche la timeline di Facebook perché sarà solo una lamentazione continua sul fastidio della pioggia.

A me invece piace, ogni volta la prima pioggia è come sfogliare l’album dell’amica di Nonna Speranza, solo che anziché “miniature dagherrotipi e figure sognanti in perplessità”, vedo adolescenti vestiti come i Cure, improbabili soprabiti, la nebbiolina intorno alle luci dei lampioni, i guanti di lana che ti si ghiacciava la mano a toglierli per 10 minuti e fumare una sigaretta, un immaginario gotico e decadente che apprezzava anche i lati “oscuri”, totalmente contrapposto all’ottica contemporanea che ti vuole sempre sorridente felice di vivere colorato estivo e spensierato.

I Cult cantavano “Rain”, I Cure cantavano “A Forest”, Roy Batty, l’androide di Blade Runner, faceva il suo struggente monologo finale sotto la pioggia, e gli Psychedelic Furs cantavano “Heaven”, celebrando, ovviamente sotto la pioggia, che c’è bellezza anche nel buio, nella pioggia, nella nebbia, nel freddo, e nella fine delle cose.
Benvenuto Autunno.

Da ascoltare: The Psychedelic Furs – Heaven.

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